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Source: Il Mucchio, n.608, 2005-03
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Popol Vuh

Fra i gruppi del rock tedesco dei ’70 ho un affetto particolare per la creatura che fu di Florian Fricke: da un certo punto in poi negletta al di là degli oggettivi demeriti di una discografia anni ’80 e ’90 debole, manieristica. Concentrata nella prima metà del decennio precedente e forte di una sequela di album enormi, fortemente caratterizzati e caratterizzanti, la produzione maggiore dei Popol Vuh resta nondimeno inattaccabile.

“Voglio dirti ancora una cosa riguardo a quella che sento essere l’essenza della mia arte. Popol Vuh è una messa per il cuore. È amore che si fa musica e questo è tutto”: così Florian Fricke in una conversazione con Gerhard Augustin del febbraio 1996 e che poteva saperne l’intervistato che da lì a cinque anni e dieci mesi sarebbe stato, senza preavviso, strappato a questa terra? Spedito forse – mi piace pensare e perdonate la retorica, buona però per parlare di un vecchio hippie cui non si poteva non volere bene (lo diceva pure David Crosby che “music is love”) – a diversamente esplorare quelle dimensioni ultramondane in cui la sua arte ha dimorato per tre decenni. Né poteva immaginare l’intervistatore che da lì a ulteriori tre anni si sarebbe trovato, con Johannes e Anna Fricke, nella prestigiosa quanto dolorosa e scomoda posizione di curatore testamentario di un’eredità la cui rilevanza è sembrata crescere smisuratamente nell’istante preciso in cui la morte del nostro uomo ha costretto a tirare delle somme. Fatto è che almeno nei ’90, immergendosi nei tempi da un lato con carinerie new age di scarsa sostanza, dall’altro con più ardite ma non felicissime incursioni nella techno, Popol Vuh ha rinunciato a un’inclassificabilità da sempre caratterizzante: musica insieme “medioevale e moderna, sacrale e terrena”, nelle parole di un ammiratore quale Gary Lucas. E così facendo un po’ ha sminuito quanto c’era stato prima. Fricke e soci sono stati ridotti, nel comune sentire, ad artefici di suggestive colonne sonore per Werner Herzog, e non che questo non fosse abbastanza per ricavare loro un posticino nella storia della musica del Novecento (siccome pochi altri spartiti per il cinema possono vantare pari funzionalità e la rara capacità di camminare con le proprie gambe), ma si è dimenticato che nella prima metà dei ’70 percorsero strade lungo le quali nessuno si era inoltrato. Le tracciarono, anzi. Il riascolto consecutivo, indotto dalla fresca riedizione su SPV, di quelli che furono i loro primi cinque LP conferma invece nell’idea, rifattasi strada dopo il fatale 29 dicembre 2001, che per quell’epopea chiamata krautrock furono rilevanti quanto Kraftwerk e Can, Faust e Neu!, Cluster e Ash Ra Tempel. Altrettanto unici e innovativi.

La storia dei Popol Vuh non ha alcuno dei tratti mitologici di tanto rock d’antan, vicenda sviluppatasi senza scossoni e riassumibile in poche frasi. Traggono il nome, dichiarando da subito afflato mistico, dal libro sacro dei Maya e nascono a Monaco di Baviera nel 1969, per iniziativa del venticinquenne Florian Fricke, pianista di formazione classica e critico musicale e cinematografico per testate prestigiose quali “Süddeutsche Zeitung” e “Der Spiegel”. Sono con lui nella prima formazione Frank Fiedler, alle prese come il leader con assortiti marchingegni elettronici, e il percussionista Holger Trülzsch, ma è un “essere con lui” relativo, dacché l’esordio “Affenstunde” è assemblato in massima parte dal solo Fricke. Più rilevante l’apporto dei due al successivo “In den Gärten Pharaohs”, che è pure l’addio (Fiedler a un certo punto tornerà). Nel girotondo di collaborazioni che segnerà la vita di una sigla talvolta più pseudonimo che gruppo “aperto”, merita in questa sede segnalare giusto la venticinquennale presenza del chitarrista e percussionista Daniel Fichelscher.

Più di un’aneddotica che quasi non c’è contano i dischi: e che dischi! I già nominati primi due, usciti rispettivamente su Liberty e Pilz nel 1970 e ’71, viaggiano in coppia in qualsiasi resoconto critico per l’identica strumentazione adoperata, coacervo di ipertecnologico per l’epoca e tribale, Moog, tastiere e percussioni. “Affenstunde” si snoda per la prima facciata lungo i tre movimenti di Ich mache einen Spiegel, sogno variamente numerato (4, 5 e 49) di campane e tamburi, rumori acquatici e soffiare di venti, ambient etno-psichedelica se mai ve n’è stata una e da qui l’etichetta di musica drogata (sornione, Fiedler ammetterà anni dopo che i primi Popol Vuh volutamente producevano sotto effetto di sostanze musica destinata a essere fruita sotto effetto di sostanze) subito appiccicata a un album che tocca apici inenarrabili nell’omonima traccia che in origine occupava l’intero secondo lato: nei suoi 18’30” gorgoglianti e levitanti, e in lento raddensamento fino al planare conclusivo, già tutta l’evocatività visionaria che benedirà i capisaldi della cinematografia di Herzog, amico di vecchia data di Fricke. Nondimeno questo non è un film suo ma di Kubrick e per la precisione 2001: Odissea nello spazio: è l’ora della scimmia, dichiara il titolo, quella in cui il primate si leva e si fa uomo. Pare allora consequenziale che nel successivo viaggio i Nostri si addentrino nel giardino dei faraoni. Ha però ragione Julian Cope quando, in Krautrocksampler, annota che il brano che battezza il disco monopolizzandone il lato uno più che l’antico Egitto fa venire in mente immagini da ancestrale saga nordica, fra un organo enfatico e un suono di risacca, un rutilare di conga e un tremolare di piano elettrico. Ma il capolavoro è il lato due, Vuh: cercate di immaginare, se ci riuscite, una via di mezzo fra una fuga bachiana e il velvetiano, bene organizzato delirio di Sister Ray ed ecco. Registrato dal vivo con Fricke all’organo medioevale della cattedrale di Baumberg!

Addirittura ovvio che dopo non possa esservi che un cambio di direzione e difatti “Hosianna Mantra” (Pilz, 1972) svolta decisamente, barattando la strumentazione elettronica con cembali e violini, chitarre e oboe. Se è rock è “da camera”, impregnato di fragranze di India e di Irlanda, raccolta e delicatissima liturgia di una forza trascendentale al cui confronto tutta, assolutamente tutta quella che verrà chiamata new age e che qui pretenderebbe di affondare le radici impallidisce, svelandosi per il ciarpame che in grandissima parte è. Su Kosmische Musik e uno del ’73 e l’altro del ’74, “Seligpreisung” e “Einsjäger & Siebenjäger” completeranno evoluzione e canone Popol Vuh abbracciando fra un raga e un mantra un acid rock di gusto californiano (in gran spolvero soprattutto nel primo l’elettrica di Fichelscher), non negandosi al jazz o a Terry Riley. Il variegato assieme troverà da qui in poi adeguata sintesi più che altro nelle colonne sonore (più deboli gli album concepiti autonomamente) per i film di Herzog, sei in tutto e due, o magari tre, imprescindibili. Giusto quelle appena ristampate, “Aguirre” e “Nosferatu”, essendo eventualmente la terza “Fitzcarraldo”. L’aggettivo “indimenticabile” deve essere stato inventato per il tema conduttore di Aguirre, Lacrime di re, pinkfloydianamente in transito dal cristallino al gregoriano, o per il piano che rintocca sui titoli di testa di Nosferatu, con la camera che carrella su una fila di sepolcri aperti a esporre mummie ghignanti.