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Bron: Tempo, 1975
Auteur: M. Fumagalli

Un sound fra la bibbia e i crauti

Popol Vuh, per gli etnologi, è il nome del libro sacro di una tribù Maya, i Ouiché: per gli appassionati di - pop -, il gruppo tedesco più atipico e convincente degli ultimi anni. Il suono teutonico

(o  ‘krautrock’, come lo hanno ribattezzafo ironicamente gli inglesi) sembra attualmente in una fase di stasi, dopo avere catalizzato attorno ad un paio di nomi-guida le speranze di chi vedeva nella fusione tra l’elettronica e le strutture ritmiche del rock una consistente ipotesi di evoluzione musicale. Solo chi ha saputo rinnovarsi, anche questa volta, è sopravvissuto al lento ma inevitabile inaridimento creative.

I Popol Vuh si erano imposti di prepotenza all'attenzione del pubblico europeo nel 1973, con ‘In Den Garten Pharaos’, un’incisione realizzata in una chiessa di Colonia, possente e profondissima, totalmente giocata su ipnotici disegni elettronici. Il disco proponeva con ottima puntualità un suggerimento originale nell'approccio al suono: non più la ricezione passiva di una prevedibile serie di melodie, ma l'uso della materia musicale come bisturi psichico, invito ad un'introspezione emotiva prolettata nella coscienza individuale. Ma già l’ album successive ‘Hosianna Mantra’, era destinato a sconcertare chi aveva voluto vedere nei Popol Vitti gli ennesimi paladini dell’elettronica. Il suono diventa completamente acustico (una chitarra elettrica l'unica eccezione) ed iI messaggio che esce dal testi è impregnato di una nuova luce, di una religiosità dai contorni dolcissimo. L’osanna della tradizione cristiani ed il mantra (sillaba sacra) orientale: ‘Un appello ad un suono esultante e piangente’ dice Florian Fricke, leader della formazione, ‘una musica tesa a riportare Ia Pace e l'Armonia’.

Continue improvvisazioni

Sulla scia dei sottilissimi vocalizzi di Diong Yun, la nuova cantante, il suono dei Popol Vuh inizia a prendere forma. II tentativo è semplice e complicatissimo: ridare vita al messaggio contenuto in alcune pagine dei testi sacri —principalmente della tradizione cristiana — innestandoli su una musica capace di unificare la lezione del rock californiano con la tradizioni, romantica mitteleuropes,  ‘Seligpreisung’ (beatificazione), ‘Einsjager & Siebenjager’, il recentissimo  ‘Das Hohelied Salomos’ portano a compimento l'opera di definizione della struttura musicale. Una musica straordinariamente comunicativa, proprio perché capace di trascendere la dimensione confessionale del messaggio religioso e di riproporto nella sua essenza universale, accettabile sempre e comunque da tutti. Una musica che affida il suo fascino ad una dimensione sfumata, meditative: In cui non è difficile riconoscere una parte delle nostra stesse emozioni quotidiane. Anche perché i pericoli di una eccessiva  cristallizzazione estetico, di un rigido formalismo sono evitati brillantemente grazie alle continue e ricchissime Improvviaazioni.

Il nome dei Popol Vuh torna ora alla ribalta legato ad un avvenimento decisamente inconsueto: un concerto gratuito, all'aperto, in una piazza di Milano, il primo da quando dedicarsi alla ‘musica per le strade’ era divenuta la parola d'ordine dei movimenti della controcultura statunitense. Tocca ai Popol Vuh inaugurare l'auspicabile nuova era di una politica culturale aperta e dinamica. Occorre un augurio? Che non ai tratti di un episodio isolato …