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Bron: Super Sound, nr.14, 1973, p.6
Auteur: F.Ghisellini

Popol Vuh - In den Gärten Pharaos

E continuiamo il discorso sulla musica tedesca. questa musica cosi ‘nuova’ e coraggiosa, che si va lentamente imponendo nel panorama europeo. Inutile dire che, come sempre avviene quando si tratti di educare il pubblico piuttosto che di pascerlo. i detentori del potere (in questo caso discografico) continuano ad ignorarla completamente; e purtroppo non sono i soli. Mi riferisco a ‘Per voi giovani’, la trasmissione radiofonica che (naturalmente in teoria) dovrebbe costituire l'unica possibile via di diffusione di tutti quei musicisti che, in un modo o nell'altro. cerchino di ribellarsi al Moloch del Taratapunzipè (salvo poi sostituirvi il du-dudu-dudu di Lou Reed ed il suo degno compare Bowie).

Stando così le cose, a noi ascoltatori ‘giovani’ non resta che spegnere la radio. E cercarci i dischi da soli, sperando di trovare qualcosa di buono. e soprattutto qualcosa di ‘puro’.

Come questo ‘In den Garten Pharaos’ album che non è certo di recente pubblicazione; tuttavia in Italia è stato distribuito cosi poco e cosi  male che ben nochi avranno avuto occasione di ascoltarlo e di fare cosi  conoscenza con la musica dei Popol Vuh. Questo gruppo Tedesco è da noi completamente sconosciuto ( come lo  sono, del resto, I confratelli Grobschnitt). mentre in Germania rientra senz'altro nell'esigua schiera di quelle formazioni. che pur portando avanti un discorso di alto livello, riescono anche ad esercitare una notevole presa sul pubblico. Bisogna dire subito che si tratta di un trio. i cui componenti sono Frank Fiedler (Moog-Synthesizer ed effetti speciali). Holger Trülzsch (percussioni Africane e turche) e Florian Fricke (Moog-Svnthesizer, organo e piano Fender). Ecco, basta dare una occhiata alla strumentazione per comprendere quanto la loro musica debba discostarsi dai modelli tradizionali: e basta sapere che le due facciate ospitano altrettanti pezzi per immaginare, se non altro, l'audacia o meglio l’originalità del messaggio dei Popol Vuh. Questa volta non ci troviamo davanti a trasfigurazioni più o meno ideali di pur sempre concrete realtà; non si affrontano temi sociali e politici, né al contrario ci si rifugia in quel puntinismo realista e bozzettistico che in fondo in fondo non scuote di un millimetro le nostre placide posizioni mentali. Per i Popol Vuh non si può parlare di disimpegno, né tanto meno di impegno (almeno dal punto di vista ideologico); è semplicemente qualcosa di diverso. Qui la rivoluzione si fa a monte, o meglio si dà per scontata in partenza; non c'è passaggio dalla realtà alla fantasia, non c'è alcun raffronto, o per lo meno non in superficie, tra il mondo tangibile e quello delle idee più impalpabil. Qui si parte dal sogno. E ci si rimane. Già il titolo del primo pezzo (lo stesso dell'album. ‚nei  giardini del Faraone‘) ei introduce in un mondo onirico fatto di sensazioni inquietanti e fuggevolì, in una atmosfera sospesa e solenne piena  di profumi, di incantesimi, e di suggestioni remote.

Il coro muto che introduce la lunga suite sembra proprio ideato appositamente, ed è come se i tentacoli vellutati ma pericolosi di una invisibile piovra ci trascinassero lentamente verso il mondo dell'irreale, lungo un corridoio oscuro che sembra non finire mai.

Il Mogg fa la sua comparsa in sordina, mudolandosi sulle stesse tonalità delle voci ed accennando. dapprima lentamente. il tema base del pezzo, ben presto sorretto dall'entrata delle Kongas.

Le percussioni acquistano poi un ritmo sempre più sostenuto, in netto contrasto con l'espressione dolce e morbidissima del Moog: in questi momento possiamo notare come le consuete funzioni strumentali siano state praticamente ribaltate: e, in effetti mentre la parte percussionistica assume tale risalto fe coesione. tra una battuta e l'altra sulle Kongas) da diventare prevalente e quasi solista, le pause fra gli interventi del Moog sono cosi dilatate da assegnare la funzione ritmica proprio al sintetizzatore.

L'atmosfera è veramente quella del sogno. pregna di umori conosciuti e intangibili al tempo stesso:  ed è certo che anche l'intervento finale del piano contribuisce non poco alla creazione di tali momenti, tanto rarefatti quanto inconsciamente veri, e reali. C’è come il persistere di qualcosa che non riusciamo a cogliere appieno sebbene lo sentiamo vicino e presente, sebbene la musica ci avvolga proprio come il velo di una odalisca egiziana, addormentata ‘nei giardini del Faraone’. E’ la stessa sensazione che si può provare ascoltando alcuni pezzi dei Pink Floyd (la parte iniziale di ‘A saucerful of secrets’ ad esempio), sebbene gli sviluppi musicali del gruppo inglese siano completamente diversi. La cataratta iniziale di suoni astrali e disarticolati ha nei Pink Floyd funzione strumentale, serve ad introdurre il misticismo melodico della catarsi finale: la loro musica risorge sempre, emerge da un magma ribollente dei fotogrammi sonori e sale, sempre più in alto. Quella dei Popol Vuh non vi riesce: resta immersa nel calderone dei sogni più confusi ed indefiniti, non si conclude mai.

Non a caso ho citato ‘A saucerful of secrets’ a proposito dell'album dei Popol Vuh: infatti, come ‘In dem Gärten Pharaos’ ne rispecchia il primo momento, ‘Vuh’ (l'altra facciata dell’album) può per certi versi ricordare la parte finale dello stupendo pezzo dei Pink Floyd. L ‘intero svolgimento della suite ‘Vuh’ è accompagnato da maestosi accordi di organo, sottolineati inizialmente dall’uso magistrate del gong: basta questo per farci sognare la solennità delle cattedrali gotiche, il misicismo trascendebte delle guglie che siinnalzano purissime a toccare il Cielo, il desiderio atavico di ascendere, di salire lentamente oltre le nuvole e arrivare a Dio. L'atmosfera creata è veramente incontaminata e celestial; sul tema orininario dell'organo si innestano i giochi informali di Trülzsch alle percussioni metalliche turche, che sembrano continuamente sul punto di disgregare l‘unità del brano, sorretto invece efficacemente dal piedistallo saldissimo dell’organo.

Il sintetizzatore interviene solo nel finale, quasi a dissolvere verso l ‘altro il robusto disegno armónico dell’organo a canne della chiesa di Bamburg, quasi a intrecciarsi sinuosamente con la vibrante base Sonora che continua a vivere fin dall'inizio del pezzo, e ne costituisce la fine stessa, ‘Kosmische musik’, é stata definita quella dei Popol Vuh, ‘musica cosmica’:  ed in certi punti quella che potrebbe sembrare solo una definizione pretenziosa arriva decisamente a possedere un fondo di realtà. H limite consiste a mio avviso in una certa dispersività musicale, per cui (specialmente in ‘Gärten Pharaos’) le frasi sonore sono dilatate in modo forse eccessivo rispetto alle reali esigenze contenutistiche. Tuttavia questo è un difetto facilmente riscontrabile in molti dei gruppi tedeschi. che sembrano non porsi le esigenze di sintesi tipiche delle formazioni anglosassoni. E' vero, qui non può certo parlare di scarna essenzialita: tuutavia la ripetitività non degenera mai in monotonia, soprattutto se si riesce a valutare esattamente il lavoro vivificatore svolto dalle percussioni di Trülzsch, a mio aviso veramente notevole. Comunque a parte quelle che possono essere le considerazioni tecniche (almeno in questo caso piuttosto secondarie), ci resta la stupenda realtà di un pezzo come ‘Vuh’, decisamente uno dei migliori mai prodotti dai gruppi Tedeschi. Cerchiamo quindi di conoscere meglio questa musica, perché questa è la musica nuova, la musica pura, la music ache potrà essere discussa e contestata, ma che non potrà mai essere tacciata  di commercialism o di faciloneria: i Popol Vuh ‘sentono’ profondamente ouello che cercano di esprimere, e basterebbe questo, indipendentemente da ogni altro elemento, ad elevarli di una buona spanna rispetto alla grande maggioranza degli altri gruppi in attività, mai come oggi protesi verso il facile successo di una formula collaudata, piuttosto che in direzione della musica, quella vera.